L’ultima produzione della pittrice Sandra Vukelic - nata a Belgrado nel
1973, dal 2002 residente a Piacenza - ci proietta in un universo magico
dominato da un antinaturalismo ed un antirealismo brillanti, giocosi, a tratti
spregiudicati. E qui è facile riconoscere l’ispirazione e la visionarietà
dell’Est europeo per quella tendenza a contraddire e rimettere in discussione
stilemi ma anche simboli poi reinterpretati con sensibilità moderna, mai però
esasperata. Tutte le sue recenti tele – sempre ad acrilico, vari formati - si
ispirano ad immagini quotidiane che, abbandonando lentamente l’oggettività, si
smarcano lanciandosi verso un mondo fantastico. Anzi ci introducono – oltre
l’apparenza e la normale percezione – in un universo cromaticamente
vivacissimo, quasi fossero i platonici “intermundia” dove tutto viene
simpaticamente e coraggiosamente stravolto in nome di un’unità spazio-temporale
di certo non occidentale, non cartesiana. Ogni aspetto infatti è potenzialmente
trasfigurabile, nelle sue abili mani anche aggeggi e strumenti di uso
quotidiano come teiere, tazze e caffettiere ma anche case, alberi e pesci
diventano prototipi in breve anche consolidati modelli - di un mondo diverso,
il regno quasi di gnomi e folletti. I quali ci sono, sempre invisibili, mai
dispettosi, piuttosto silenziosamente ci aiutano a traguardare una dimensione
diversa, sconfinante nell’onirico, tanto ludica quanto appariscente per la
vivacità compositiva. L’ammassarsi dei soggetti, la sovrapposizione dei riti,
la leggerezza e la leggiadria visiva ricordano a tratti certi film di Emir
Kusturica che ha sempre privilegiato l’invenzione spesso scoppiettante,
l’andamento travolgente, lo scollamento da meccanismi narrativi talora
prevedibili. Tutti i dipinti di Sandra
sono un’esaltazione della cultura e delle tradizioni popolari tipiche dei
Balcani sempre protese non a delimitare, circoscrivere razionalmente, ma a
fondere in un magnetismo visivo, sovrapporre cose e concetti, cercare sempre
l’antidefinizione, l’opposto non per un pregiudizio teorico ma per istintive
necessità espressive. La sua produzione suggerisce e ineffabilmente riporta a
significati talora archetipici perché spesso rappresentare qualcosa significa
possederla, non certo materialmente ma solo cercando di evocarne l’aura,
esorcizzarne lo spirito. Sandra ci colpisce da un lato con la freschezza e la
spontaneità dei temi trattati, dall’altro con l’ordine e il disordine -
attentamente selezionati però - delle sue tele che sembrano vibrare di un
tensione intima, musicale, al ritmo di qualche ispirato jazzista. I suoi quadri
sono piccole suite, brevi composizioni modulate su una semplicità iconografica
a volte sorprendente ma in grado di proporsi come ben congegnato impianto per
tradurre un fremito interiore, cogliere una strana ma suggestiva empatia con la
natura sempre - in fondo - benigna. Forse c’è nostalgia nell’arte di Sandra, la
paura di diventare adulti, quindi il dichiarato bisogno di rituffarsi nella
fanciullezza, nell’ingenuità tipica dell’infanzia ma l’innata eleganza, il
senso della misura e il controllo dell’intuito svincolano la pittrice da
qualsiasi retaggio artistico, storico e psicologico configurando così un
approccio libero da condizionamenti memore de “L’âme slave” cantata da Boris Vian.
Fabio
Bianchi